Con il termine cultura può farsi riferimento alla formazione e crescita personale del singolo individuo ovvero a quel sistema di conoscenze che rendono riconoscibili tra loro i cittadini senza materialmente doversi conoscere personalmente.
In quest’ultima accezione, per dirla con Zagrebelsky, la cultura è intesa come un “fatto sociale che ha a che vedere con lo stare insieme, con il formare società”.
In tal senso, la cultura è certamente una funzione sociale primaria, al pari dell’economia, del diritto e della politica.
La nostra Carta Costituzionale, infatti, le assegna un ruolo centrale quando, ad esempio, all’art. 33, recita che “l’arte e la cultura sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Ma a ben vedere, anche all’art.1, si può far riferimento agli operatori culturali ed alla cultura. Infatti se la “Repubblica Italiana è fondata sul lavoro” e se la cultura è un lavoro, per diretta conseguenza, la nostra Repubblica sarà fondata anche sulla cultura.
Tuttavia, dando per acquisito che nella nostra costituzione nessun termine è utilizzato a caso, occorre fermarsi e ragionare su cosa materialmente i padri costituenti hanno voluto trasmetterci con una disposizione che non può essere -e non è- di mero stile.
Se le società si reggono su alcuni pilastri, tra cui la politica, l’economia, il diritto e la cultura, appare evidente che quest’ultima deve essere slegata dagli altri, altrimenti ne diviene la prosecuzione o, peggio, l’esecuzione materiale di una delle altre funzioni richiamate.
Pensiamo ad una pubblicità televisiva, che certamente ha visto misurarsi operatori culturali nella sua formazione: possiamo considerarla formalmente una forma di culturale?
Formalmente risponderemmo di no, per il semplice fatto che è finalizzata alla, per esempio, vendita di un prodotto, quindi è asservita al mercato, cioè all’economia. A completamento di quanto detto, però occorre dire che il passare del tempo ha mutato questa concezione, ormai residuale, dando dignità anche anche a questi strumenti.
In verità, lo stesso Zagrebelsky ci mette in guardia dai rischi che corre la cultura, che ne minerebbero alla base la sua stessa sopravvivenza, e che possono essere riassunti nella strumentalità, nel servizio e nel conformismo. Su quest’ultima insidia mi piace soffermarmi, pensando a come in età antica il despota di turno minacciava la morte verso chi non la pensava come lui, mentre oggi il leader di turno si esibisce in una non meglio precisata libertà di pensarla come la si crede salvo poi essere messi ai margini di una comunità, come uno straniero: “gli altri cittadini vi eviteranno per timore di essere a loro volta evitati”.
L’essere libera e svincolata dalle altre funzioni sociali, però, implica che la cultura -e gli operatori- non devono rispondere a logiche di mercato, per non cadere nella corruttela della funzione.
Ecco perché, per avere una cultura libera, veramente libera, è lo Stato che deve investire sull’intera funzione, così assicurandosi la coesione della comunità e la sua crescita, secondo parametri eticamente accettabili perché massimamente divulgati.
Seguendo il ragionamento sin qui esposto, non si potrà in alcun modo fare cenno alla cosiddetta impresa culturale, costituendo un ossimoro proprio per le ragioni richiamate, occorrerà parlare di politiche culturali e di svolgimento della cultura secondo schemi che non perseguono il mercato, il consenso ed il conformismo.
La cultura, per Essere, non può che essere libera , come le idee che la alimentano.