A volte le celebrazioni rappresentano un momento retorico quasi imbarazzante, tanto che spesso molti le rifuggono, maturando addirittura un’avversione non solo a questo tipo di manifestazioni ma anche nei confronti del destinatario delle stesse.
Così non deve essere per il Sommo Poeta, però, i cui versi riecheggiano spesso anche nelle conversazioni più disparate ovvero si prestano a diverse citazioni a seconda delle situazioni.
Di queste opportunità proverò a fare una breve carrellata, senza alcuna presunzione di completezza.
Nei momenti di silenzio, che non considero passivo ma come momento di ascolto, spesso mi ripeto “Poca Favilla gran fiamma seconda”, perché la passione che occorre mettere in ogni cosa è certamente necessaria e più cresce quanto più si ascolta, in silenzio, la propria voce o quella del proprio interlocutore. In atl senso pare opportuno ricordare il famoso detto “Un bel tacer non fu mai scritto” che pare voglia attribuire un grande valore ed un importante significato proprio al silenzio.
Riguardo alla politica, che certamente ha ricoperto una fase centrale nella vita di Dante, quante volte abbiamo letto e sentito dire:
«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!»
Una terzina che, nonostante abbia settecento anni, pare essere stata scritta oggi perché sempre attuale.
Ed ancora, è noto ai più il pessimo giudizio che Dante aveva per coloro che non hanno mai preso posizione, che trova mischiati agli angeli che non furono ne fedeli ne ribelli ed ai quali assegna il peggior posto dell’Inferno.
Il passo in questione, dedicato agli ignavi, è nel terzo canto dell’Inferno:
“E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’ è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa»”
Non pare secondario, poi, soffermarsi sulla riflessione che Dante ci consegna dell’Amore, inteso non come un sentimento, seppur nobile, ma come una forza vera e propria. Ciò lo si ricava dal verso “L’amor che move il cielo e le altre stelle”, che descrive con incredibile semplicità e precisione, quella forza che si fa energia e che è motore di tutto.
Una sfumatura che affascina non poco, poi, è rappresentata dal mistero dantesco su cui tanti si nono misurati. Che piaccia o meno, Dante, in alcune terzine più oscure, sembra voler dire qualcos’altro, qualcosa che non tutti possono cogliere. I due passaggi, rispettivamente del IX canto dell’Inferno e del VIII canto del Purgatorio sono riportati di seguito:
“O Voi che avete li ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde